Scritto da NOELIA BAQUERIZO
Chi pratica Ashtanga con costanza e da un po’ di tempo, spesso viene frainteso dalle persone che ha più vicino. Abitudini come svegliarsi presto la mattina per praticare, mangiare poco la sera anche quando si esce a cena, andare a letto presto e portare il materassino con sé in viaggio per il mondo durante le vacanze sembrano sforzi o sacrifici inutili, per chi non conosce il mondo dello yoga.
Quando si vive questo mondo si provano in prima persona tutti i benefici di una pratica yoga quotidiana e, nel mio caso, si viene quasi a creare una sorta di dipendenza da essa.
Il mio corpo mi chiede di praticare perché sente che gli fa bene, non per niente la nostra carissima Prima Serie si chiama Yoga-Chikitsā (in italiano Yoga Terapia) che ha come obiettivo la pulizia di tutto il corpo.
La mente mi chiede di praticare perché il mio momento di Yoga diventa una meditazione attiva (è l’unico modo nel quale riesco a meditare per adesso) dove mi posso liberare della fretta del “day to day” e posso dare pace alla mia mente.
Lo spirito mi chiede di praticare perché sul tappetino ogni giorno faccio piccoli avanzamenti nella crescita personale, per esempio trovare più equilibrio dentro di me oppure sviluppare la mia forza, oltre a quella fisica anche quella mentale, per affrontare anche le situazioni più difficili.
La pratica è diventata qualcosa di fondamentale nella mia giornata. A volte penso che per noi ashtangi sia facile dimenticare che, in realtà, la pratica è solo uno strumento e non un fine.

Quando ci facciamo male, cosa che prima o poi succede, siamo obbligati a fare una pausa. E qui inizia un combattimento interno tra il voler riprendersi e stare bene ma anche il voler praticare a tutti costi.
Poco tempo fa mi sono fatta male alla schiena e ho provato due sensazioni diverse riguardo al dover mettere in pausa la mia pratica. La prima veniva dalla mia ambizione e mi diceva che praticare non mi avrebbe fatto male, cosa che chiaramente non era vera. La seconda proveniva invece del mio progresso nella pratica stessa, ovvero dove ero riuscita ad arrivare, questa mi diceva che il fermarmi mi avrebbe fatto fare passi indietro nella mia pratica.
Era come se il non poter praticare mi facesse più male dell’infortunio stesso. Il dover “stare ferma” era diventato un pensiero costante, un qualcosa che non volevo accettare e che mi faceva sentire in colpa. Chiaramente qualcosa di assurdo.